Tutti convennero che era un’ eccellente idea, e non soltanto perché era venuta al signor generale. Era un’idea che mille e ottocento anni prima, e diecimila chilometri lontano, un altro popolo di implacabili conquistadores aveva avuto e aveva applicato con straordinario successo: i romani, che sapevano trasformare i nemici di ieri, i regni conquistati e sottomessi, in alleati e tributari, a difesa delle frontiere esterne dell’Impero.
Cappello Bianco fu subito incaricato di portare la proposta a Tashunka e partì per la sua tenda con una piccola delegazione di ufficiali, qualche indiano e un interprete.
Parlò a Cavallo Pazzo, che aveva fatto venire altri capi guerrieri, Lui Cane, l’amico Piccolo Grande Uomo, Tocca Le Nuvole, il Giovane Che Fa Paura e la sua risposta fu positiva.
«Siamo stanchi di guerra» disse parlando in lakota «ma per raggiungere la pace finale dobbiamo rassegnarci a batterci ancora una volta, anche se il nostro cuore è pesante e le nostre braccia affaticate. Haù, va bene. Riprenderemo le armi, torneremo al Nord e combatteremo per voi bianchi, fino a quando non resterà più un Naso Forato vivo.»
L’interprete tradusse e quando ebbe finito di tradurre, il tenente Clark, Cappello Bianco, balzò in piedi come un ossesso, i suoi accompagna tori misero mano alle fondine, e sotto la tenda scoppiò un tumulto di voci e di gesti minacciosi.
Cavallo Pazzo e gli altri capi indiani guardavano senza capire, ascoltavano sbalorditi le urla del tenente.
Non avevano forse risposto di sì? Non avevano detto che sarebbero scesi in guerra contro i Nasi Forati? No, agli orecchi degli ufficiali bianchi avevano detto ben altro. L’interprete, per ignoranza, per leggerezza, o per mettere zizzania su istruzioni di un capo geloso, aveva tradotto così la frase di Tashunka: «Haù, va bene, riprenderemo le armi, torneremo al Nord e combatteremo voi bianchi, fino a quando non resterà più un uomo bianco vivo».
Era falso, ma erano le parole che sembravano confermare finalmente tutto quello che da mesi i capi gelosi andavano dicendo ai bianchi sul conto di Cavallo Pazzo.
Quando Cappello Bianco le riferì ai suoi superiori, per telegrafo, tutti i pezzi grossi, Sheridan, Crook, Miles, convennero che era arrivato il momento di farla finita e che non si potevano più correre rischi con quell’uomo, con quel simbolo della guerra ai bianchi, specialmente ora chei Nasi Forati bussavano alle porte. «Tre Stelle» Crook informò il tenente dal cappello bianco che sarebbe arrivatolui stesso, in persona, il giorno dopo per assumere il comando di Fort Robinson e convocare un grande consiglio di tutti gli indiani delle riserve, Cavallo Pazzo incluso.
Il generale arrivò in effetti il giorno dopo – era il 2 settembre del 1877- e stava entrando al forte quando gli si fece incontro un indiano con le trecce pettinate alla maniera delle donne, e una sottana femminile. Era Vestito Di Donna, quello stesso che era corso incontro a Cavallo Pazzo per avvertirlo che Senz’Acqua aveva sposato Donna Del Bisonte Nero e per confortarlo. Ma molte lune erano passate da allora e adesso VestitoDi Donna doveva vivere della elemosina di Nuvola Rossa, dunque fare quello che lui gli chiedeva.
Affrontò il generale e gli gridò: «”Tre Stelle”, stai attento al consiglio dei capi, non convocarlo, perché Cavallo Pazzo ti ucciderà».
Era un’ altra menzogna. Sappiamo dagli amici di Cavallo Pazzo che lui aveva deciso di non partecipare al consiglio, sapendo che si sarebbe trovato sotto accusa da tutti, dai generali convinti che volesse ribellarsi e uccidere i bianchi, dai capi lakota che ormai avevano deciso di distruggerlo.
Ma «Tre Stelle» Crook non poteva saperlo, non poteva neppure sapere che la traduzione dell’interprete era sbagliata.
Fece quel che qualsiasi altro comandante avrebbe fatto nella sua situazione. Convocò soltanto i capi più fidati, dentro il forte. Chiese loro, come Ponzio Pilato agli Israeliti, che cosa avrebbe dovuto fare di quel Cavallo Pazzo, di quel seccatore.
I capi gli risposero: «Fallo uccidere». Ma il generale respinse il loro suggerimento. Decise invece dimandare il tenente Clark ad arrestarlo, il giorno dopo. Nuvola Rossa e gli altri se ne andarono soddisfatti. Ma, nel buio, una figura non vista da nessuno che aveva origliato quei discorsi scivolò via, verso il recinto dei cavalli militari, ne rubò uno e galoppò verso il villaggio di Tashunka Uitko. Era Penna Rossa, il fratello di Scialle Nero, il cognato di Cavallo Pazzo. Si precipitò ansimante alla tenda del cognato, gli riferì dell’ ordine d’arresto e lo implorò di mettersi in salvo. Poco prima dell’ alba, prima che arrivassero i soldati ad arrestarlo Cavallo Pazzo, con la prima moglie e la fedelissima concubina Larrabee, era in fuga verso la riserva di Coda Macchiata, lo zio materno.
La vita di Cavallo Pazzo aveva compiuto un cerchio completo, il cerchio sacro a tutti i Lakota. Il suo cammino di uomo era cominciato dall’ alto di una collina, da dove un ragazzo chiamato Riccetto aveva visto il villaggio dello zio, i Brulé, distrutto dalle truppe in giubba blu e aveva giurato di battersi contro gli invasori. E ora sarebbe finito in un villaggio dello stesso capo, al quale avrebbe chiesto un poco di quell’aiuto che lui aveva dato.
I soldati e i poliziotti ausiliari indiani arrivarono puntuali al tipì di Cavallo Pazzo e lo trovarono vuoto. Immediatamente, Cappello Bianco ordinò una caccia all’uomo, offrendo 100 dollari e un cavallo sauro a chi avesse trovato e arrestato Tashunka Uitko. Fra i primi a partire per la caccia fu una nostra vecchia conoscenza, Senz’Acqua, il marito di Donna Del Bisonte Nero, quello che aveva sparato in faccia a Cavallo Pazzo. Tanta era la sua ansia di trovare il rivale che stroncò ben due cavalli sotto di sé, ma non riuscì a trovarlo. Gli spiriti, dissero i vecchi, lo avevano confuso e lo avevano portato fuori strada.
Stranamente, nessuno lo trovò, e nessuno pensò di andarlo a cercare nel villaggio dello zio. Coda Macchiata aveva accolto volentieri il nipote, ma aveva subito chiarito i termini della sua ospitalità con la condizionale. Finiti erano i tempi nei quali un intero villaggio era pronto a battersi e a morire per difendere il Uakan, il sacro tabù della ospitalità. «Nipote, nel mio villaggio regna la pace e non vogliamo guai con l’Uomo Bianco. Se tu vuoi restare con noi, devi sapere che qui comando io e tutti coloro che vivono nella mia riserva devono ubbidire a me.»
Cavallo Pazzo tentò di spiegare al fratello della madre che tutto era frutto di un colossale malinteso, che lui non aveva mai avuto alcuna intenzione di creare problemi o di scendere in guerra e che qualcuno avrebbe dovuto spiegare ai soldati che l’interprete aveva semplicemente sbagliato la traduzione.
«Perché non lo fai tu direttamente?» suggerì una voce. Era la voce di un bianco, del tenente Jesse Lee, che era l’agente governativo assegnato alla riserva e dunque il vero, e l’unico «capo» di quel villaggio, nonostante le millanterie di Coda Macchiata. «Nessuno meglio di te può farlo ed è urgente che tu lo faccia, perché altrimenti la collera dei soldati si abbatterà sulla tua gente, sul tuo villaggio che hai abbandonato per venire qui da tuo zio.»
Cavallo Pazzo lo guardò con un mezzo sorriso, con l’espressione di chi ha capito tutto. Disse allo zio, va bene, domattina andrò al forte a chiarire l’equivoco. In cambio, chiese a Coda Macchiata un impegno solenne: che la moglie, Scialle Nero, e la fedele Nellie potessero tornare a vivere per sempre fra i Brulé, sotto la protezione del capo e dell’agente, se a lui fosse accaduto quacosa. Haù, promise lo zio e manterrà la parola.
La sera, la sua ultima sera prima di avviarsi verso Fort Robinson, Cavallo Pazzo cenò con la moglie, con Nellie e con Tocca Le Nuvole, il solo amico che lo avesse raggiunto senza farsi vedere dagli altri cacciatori di taglie. Il capo guerriero che aveva condotto migliaia di indiani contro le tribù nemiche e contro i Soldati Blu si ritrovava alla fine con una moglie malata, una giovanissima concubina e un solo amico.
Dopo la cena, che fu consumata con il cibo dei bianchi, fette di pane fritte nel lardo, gallette militari, carne secca di manzo ammorbidita nell’acqua bollente, Cavallo Pazzo parlò ai suoi amici e disse: «Se domani, al forte, dovesse accadermi qualcosa, prendete il mio corpo, dipingetelo con il colore rosso da guerra e gettatelo nell’acqua fresca di un torrente. Se lo farete, io tornerò dalla morte e vivrò per sempre. Se non lo farete, allora le mie ossa diventeranno sassi e le mie dita pietre focaie.Ma il mio spirito non morirà comunque e resterà con voi, perché voi avrete sempre bisogno di me e io non vi abbandonerò mai».
Tocca Le Nuvole lo abbracciò e gli strinse le mani. Nellie gli disse piangendo non andare, non andare, perché ho saputo che è una trappola e ti porteranno a morire sull’isola della Tartaruga Secca,ma Cavallo Pazzo la rassicurò: stai tranquilla, le disse misteriosamente, su quell’isola io non andrò mai. Scialle Nero si diede da fare in silenzio per pulire la tenda dai resti della cena.
La tensione era densa come la melassa, il mattino dopo, sullo spiazzo di Fort Robinson. Migliaia di Sioux, tra i quali si era sparsa come il lampo la notizia che quel giorno Tashunka Uitko si sarebbe consegnato all’ esercito, si erano affollati già dalla notte, ancora con il buio. I soldati erano nervosi, le dita sui grilletti, le orecchie attente ai comandi dei sottufficiali e degli ufficiali, gli occhi impegnati nella facile matematica del terrore a calcolare la schiacciante superiorità numerica dei Sioux dentro lo steccato.
Prudentemente, il generale Crook se ne era andato il giorno prima, per urgenti necessità di comando, aveva detto.
Aveva lasciato al tenente Clark quella rogna. La folla dei Sioux rumoreggiava eccitata, ma sul forte scese un silenzio sovrumano quando, nel rettangolo di legno del portone, apparve la figura di Cavallo Pazzo, illuminato dal sole rosso del pomeriggio.
Era a cavallo, una bestia che gli aveva prestato lo zio.
Dietro di lui, altissima, la sagoma inconfondibile di Tocca Le Nuvole, il gigante guerriero. Alla sua sinistra, circonfuso dal suo piumaggio di guerra con duecento penne d’aquila, Lui Cane.
Lo splendore della tenuta di guerra di Lui Cane faceva risaltare ancora di più la povertà dell’abbigliamento di Cavallo Pazzo. Era vestito soltanto con la sua pezzuola di pelle attorno ai fianchi e una coperta militare, di lana, buttata sulle spalle. Non portava colori sul viso o sul corpo, né amuleti al collo o alle orecchie. I capelli erano sciolti sulle spalle e in capo non c’era la sua penna di falco rosso.
Aveva, diranno i testimoni, un’aria serena, strana per lui, come di chi è in pace.
Dalle truppe schierate al centro del piazzale si staccò subito un cavaliere, ma non un Uas’ichu, un bianco, ma un indiano che indossava l’uniforme della polizia ausiliaria e si andò a mettere alla destra di Cavallo Pazzo allungando la mano. Il prigioniero fece finta di non vederla, perché sarebbe stato troppo doloroso per lui stringerla.
Quell’indiano vestito coi panni della polizia bianca era il suo più vecchio, il suo più caro amico, il guerriero con il quale aveva combattuto ogni battaglia, sotto la cui tenda si era rifugiato quando aveva cercato di fuggire con Donna Del Bisonte Nero. Il poliziotto venuto ad arrestarlo era Piccolo Grande Uomo.
Piccolo Grande Uomo fece cenno a Cavallo Pazzo di seguirlo verso la baracca dell’ufficiale di giornata e i due, appaiati e seguiti da Tocca Le Nuvole, arrivarono davanti alla porta e smontarono da cavallo. Due guardie bianche appiedate si affiancarono e una terza, un soldato semplice chiamato William Gentiles, si portò alle spalle del prigioniero, perché quello era ormai, un prigioniero, anche se ancora non lo sapeva. Gentiles, come le altre guardie, aveva la baionetta inastata sul fucile.
L’ufficiale di giornata uscì in fretta dalla baracca e borbottò che era ormai tardi, che non aveva il tempo di parlare con Cavallo Pazzo per chiarire quel famoso malinteso, ma che non ce n’era comunque bisogno perché l’errore di traduzione era stato già ammesso dall’interprete e tutto era a posto. Ora, se soltanto Cavallo Pazzo avesse avuto la cortesia di entrare nella baracca e di accomodarsi per la notte, il giorno dopo il comandante in persona, Cappello Bianco, gli avrebbe parlato e avrebbe discusso con lui la questione della riserva da assegnargli e ogni altra cosa. E si allontanò in fretta.
Piccolo Grande Uomo sospinse il suo vecchio amico, il suo eroe, verso la porta, ma sentì il corpo di Cavallo Pazzo irrigidirsi e resistere. Nella penombra della sera, aveva visto che cosa c’era dentro quella baracca.
Sbarre. Sbarre di ferro alle finestre, alle porte, e catene penzolanti dalle pareti, con le palle di ferro, come quelle che aveva visto mettere ai piedi dello zio, come quelle che avevano strappato le gambe ai cadaveri dei due impiccati a Fort Laramie. Disse semplicemente, senza gridare: «No. Nella gabbia dell’Uomo Bianco, no».
Abbassò la mano verso la cintura della sua pezza attorno ai fianchi, si scrollò la coperta dalle spalle ed estrasse il pugnale che aveva nascosto. Piccolo Grande Uomo, che aveva combattuto decine di battaglie con lui e conosceva tutti i suoi trucchi, se lo aspettava, e gli afferrò con due mani il braccio che reggeva il coltello. I due lottarono per qualche secondo. Cavallo Pazzo riuscì a ferire Piccolo Grande Uomo alla mano, ma il guerriero divenuto poliziotto non lasciò la presa. Pur insanguinato, riuscì a bloccare le braccia di Cavallo Pazzo e a costringerlo ad arretrare di qualche passo.
Giusto quanto bastò al soldato semplice William Gentiles per conficcargli alle spalle la sua baionetta nella schiena.
La lama penetrò nella pelle, attraversò un rene, e un fiotto di sangue uscì dalla ferita. Per il dolore, Cavallo Pazzo fece un passo in avanti, ma Piccolo Grande Uomo lo rispinse indietro, e la baionetta di Gentiles penetrò una seconda volta nella schiena. Si afflosciò a terra, mormorando:
«Basta, amici, basta, non vedete che mi avete già ucciso?». Un testimone sostiene che sia stato addirittura Piccolo Grande Uomo, il piccolo grande Giuda, ad affondare la lama nella schiena del suo ex amico e maestro, ma probabilmente non è vero.
Piccolo Grande Uomo si era limitato a svolgere la parte che il cavaliere della visione sul lago aveva profetizzato a Riccetto.
Aveva bloccato le braccia a Cavallo Pazzo, impedendogli di difendersi. Il guerriero che in 22 battaglie con l’Uomo Bianco non era mai stato neppure graffiato stava morendo perché le mani di uno dei suoi lo avevano paralizzato.
Perché il suo popolo lo aveva tradito e consegnato ai bianchi.
La profezia si era avverata.
Tocca Le Nuvole fu il primo a gettarsi sul corpo dell’amico ferito. Respirava ancora. Lo prese tra le braccia facilmente, lui così grosso, Cavallo Pazzo così piccolo e magro e lo portò dentro la prigione, cercando una branda militare sulla quale deporlo.
Ma Cavallo Pazzo gli sussurrò di nuovo: No, non voglio morire sul letto dell’Uomo Bianco,voglio morire sulla terra dei Lakota».
Tocca Le Nuvole lo sdraiò delicatamente sopra la polvere.
Arrivò di corsa il medico, il dottor Gillicuddy che lo esaminò e fece l’unica cosa che potesse fare per il suo amico indiano, una potente iniezione di morfina contro il dolore tremendo che gli straziava la schiena e rimase accanto a lui.
Entrò, poco dopo, anche il padre, Verme, l’uomo che aveva accompagnato orgoglioso quel suo ragazzo strano fra i tipì del villaggio per cantare la sua vittoria contro gli Shoshoni e ora doveva aiutarlo a morire.
La matrigna, Coperta Agitata, restò fuori, cominciando a cantare le nenie della morte, «…questo è mio figlio, il figlio del tuono e del fulmine, che torna nel cielo del Grande Spirito, questo è mio figlio che torna…».
Il padre si chinò sul corpo del figlio, sdraiato bocconi perché la polvere non sporcasse le ferite aperte sulla schiena, e ascoltò le sue ultime parole. «Padre perdonami, perché sto morendo e non potrò più aiutare te e il mio popolo.»
Verme lo cosparse delle erbe sacre, la salvia, il tabacco, la polvere di cuore e di cervello d’aquila, per accompagnarlo nel volo finale verso il cielo e gli accarezzò i capelli ancora un poco ricci, come quando era bambino.
Poco prima della mezzanotte del 5 settembre 1877 Tashunka Uitko morì, sulla nuda polvere di una prigione militare.
Tocca Le Nuvole uscì all’aperto e parlò alla folla dei Sioux che era rimasta compatta, in silenzio ad aspettare la morte del loro profeta armato. «Una cosa buona è accaduta questa notte, fratelli Lakota. Un uomo ha cercato la morte e la morte lo ha trovato.»
Un forte vento si alzò improvviso sul piazzale, raccontò il dottore, caddero gocce di pioggia e un tuono possente scosse il cielo. Gli indiani annuirono con l’aria di chi sa. Il tuono era venuto a riprendersi suo figlio.
Molti Sioux giurano che quando Tashunka Uitko morì avesse 33 anni, ma non si può sapere………
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Fonte www.sentierorosso.it