5 SETTEMBRE 1877, finisce una vita, inizia una leggenda.
CAVALLO PAZZO E IL TRADIMENTO DI NUVOLA ROSSA E CODA CHIAZZATA
Il 12 aprile del 1877 Nuvola Rossa e 70 dei suoi uomini lasciarono la loro riserva sul fiume Platte, il fiume sul quale tutto era cominciato un quarto di secolo prima, e galopparono verso il Nord, trascinandosi al seguito molti muli carichi di provviste. Dopo sei ore di marcia, in una giornata di meravigliosa limpidezza primaverile, avvistarono lontana una processione di uomini e donne macilenti, coperti di stracci, aggrappata a cavallini magri e preceduta da un uomo a cavallo.
Spronarono le cavalcature, e dopo pochi minuti i contorni di quella gente si fecero più chiari e distinti. Erano gli ultimi Oglala liberi scesi dai monti.
Davanti a loro, cavalcava Tashunka Uitko. Nuvola Rossa lo affiancò immediatamente. Mentre i suoi uomini cominciavano a distribuire pane, melassa, coperte, gallette ai bambini e alle donne, Cavallo Pazzo e Nuvola Rossa si salutarono, smontarono di sella e si sedettero a gambe incrociate, uno di fronte all’altro sulla coperta che Cavallo Pazzo aveva spiegato sulla terra.
«Tutto andrà bene, per te e per il tuo popolo, Tashunka» lo rassicurò Nuvola Rossa con il tono di chi parla a un amico molto malato, «hai fatto la cosa giusta, la cosa onorevole.»
Ma Cavallo Pazzo non gli rispose. Sembrava distratto, quasi indifferente a quel momento che per tutta la sua vita aveva temuto e combattuto, il momento della resa. Nuvola Rossa lo invitò a unirsi temporaneamente ai suoi, nella riserva che da anni lui capeggiava, in un gesto apparente di delicatezza che purtroppo nascondeva ben altre intenzioni. Cavallo Pazzo accettò e per qualche settimana visse nel campo del suo vecchio capo. E nel quale vivevano, da tempo, Donna Del Bisonte Nero con il marito, Senz’Acqua.
Il 6 maggio successivo, sotto la Luna dei Temporali di Primavera, venne il giorno della resa formale. Alla testa di 900 Oglala e 1000cavalli, tutto quel che rimaneva della più grande e temuta tribù della Prateria, Cavallo Pazzo si diresse verso Fort Robinson, una base che distava appena 80 chilometri da Fort Laramie, per consegnarsi al comandante di quel campo, il tenente Philo Clark, che era stato avvertito. Clark, che i Sioux avevano battezzato Cappello Bianco per il suo vezzo di indossare sempre un cappellone da cowboy bianco fuori ordinanza, galoppò incontro al capo e gli tese la mano destra.
Cavallo Pazzo la rifiutò e gli rispose con la mano sinistra, come amava fare, essendo la destra «la mano che uccide, la mano del male». «Ti offro la mia mano pura, la sinistra, perché voglio che questa pace fra noi resista per sempre» disse, e il tenente la strinse con vigore.
Al fianco di Cavallo Pazzo, cavalcava Lui Cane, un altro vecchio amico e compagno di battaglie, in tenuta completa da guerra, come voleva il cerimoniale di queste rese. Cavallo Pazzo era invece quasi completamente nudo, come sempre, con il perizoma attorno ai fianchi, una coperta sulle spalle, un coltello infilato nelle fasce gambiere di pelle e la immancabile penna di falco rosso tra i capelli.
Lui Cane offrì allora a Cappello Bianco il suo piumaggio di capo e la sua pipa di guerra con la penna rossa, in segno di resa, al posto di Cavallo Pazzo. Il tenente le accettò
e fece segno ai due di seguirlo dentro il forte. Tashunka annuì e si voltò verso i suoi Oglala, per invitarli a seguirli. Fu in quel momento che qualche cosa di straordinario avvenne. Dalle fila dei 900che seguivano Cavallo Pazzo si alzò una voce, poi due, poi tutte per intonare un canto di gloria e di gratitudine al loro eroe e alla loro guida.
Cantavano la vita di Tashunka Uitko, le sue imprese, la sua generosità, il suo disumano altruismo. Ben presto centinaia, poi migliaia di Sioux già in cattività, che si erano raccolti per assistere all’arrivo del grande uomo, circondarono il gruppetto dei soldati e dei capi arresi agitando manciate di salvia, rami di pioppo e di salice, aprendosi per lasciar passare Cavallo Pazzo.
Le loro voci si unirono a quelle degli Oglala e tutta la valle del fiume PIatte si riempì di un coro immenso che cantava la gloria del Figlio del Tuono. Un sergente che era uscito incontro agli indiani con «Cappello Bianco»cominciò a innervosirsi e disse al tenente Clark: «Tenente, questa doveva essere una resa e sta diventando una stramaledetta marcia trionfale», ma l’ufficiale lo zittì con un gesto.
«Li lasci cantare, sergente, li lasci cantare.» E Cavallo Pazzo entrò così, la testa bassa sul suo cavallo scheletrico, sospinto dal canto del suo popolo dentro la città dei bianchi dove si sarebbe compiuta la volontà del Grande Spirito.
Tashunka Uitko dovette consegnare ai soldati il suo Winchester, il fucile con il quale aveva combattuto e vinto Crook e Custer. Lui e la sua gente furono disarmati di fucili, asce, frecce, coltelli, privati dei cavalli e mandati a vivere in un piccolo terreno sulle rive di un fiume chiamato Cottonwood Creek, il torrente del Pioppo, a mezza strada tra le «agenzie» come si chiamavano allora, le riserve indiane di Nuvola Rossa e dello zio Coda Macchiata, oggi al confine fra gli stati del Nebraska e del South Dakota.
E i problemi cominciarono immediatamente.
Una continua processione di Brulé Sicangu provenienti dal campo dello zio, di «Brutti Ceffi» dal campo di Nuvola Rossa e soprattutto di bianchi, ufficiali, funzionari governativi, giornalisti, fotografi ambulanti, missionari, arrivava quotidianamente al campo degli Oglala e si fermava davanti al tipì di cotone militare da tende – non c’erano più abbastanza pelli di bis onte – per vedere da vicino e per conoscere l’eroe, o il barbaro, secondo i punti di vista, che aveva distrutto Custer e il 7° Cavalleria.
Tutti portavano doni, soldi, lusinghe, per strappargli un incontro, una fotografia, una paI;ola, un’intervista, ma Cavallo Pazzo non usciva dalla sua tenda per incontrarli.
Non voleva alimentare quello che stava evidentemente diventando, in linguaggio moderno, un vero e proprio «culto della personalità» e un clima da visita allo zoo degli indiani. Non voleva farlo per due ragioni, come raccontò il fratello di Scialle Nero, il guerriero Penna Rossa.
La prima, era la parola data.
«Quando mio cognato, Tashunka, aveva deciso di arrendersi e di non fumare mai più la pipa di guerra, aveva deciso di farlo per sempre. Mi diceva spesso: Penna Rossa, loro non capiscono che sono venuto qui per vivere in pace e per morire in pace. Neppure se uno dei miei parenti mi puntasse un fucile alla tempia e mi ordinasse di cambiare idea, io la cambierei. Sono pronto a farmi uccidere, piuttosto che tornare sul sentiero di guerra.»
La seconda ragione del suo mutismo, della sua riservatezza, era la gelosia che lui sentiva montare fra gli altri capi indiani, specialmente Nuvola Rossa e Coda Macchiata, che erano naturalmente invidiosi della popolarità, e della ammirazione, che circondavano quell’Oglala che essi – veri capi, e non soltanto capi guerrieri come lui – consideravano un inferiore. In passato tutti e due, ma soprattutto Nuvola Rossa, avevano sopportato in silenzio le bizzarrie mistiche e !’immensa autorità spirituale di Cavallo Pazzo, perché quel piccolo guerriero faceva loro molto comodo, perché quello strano Oglala dalla carnagione più chiara, piccolo di statura, dai capelli ricci era il «generale nudo» che puntellava con la sua abilità di guerriero e di cacciatore la loro autorità di leader politici.
Ma nelle riserve, in cattività, la gerarchia dei valori tradizionali indiani era stata irrimediabilmente stravolta. Ora, il prestigio e l’autorità non si misuravano più nel numero di cavalli, o di mogli, o di figli, nella eloquenza, nella forza del proprio clan, ma nella distanza che separava dal mediocre dio della esistenza quotidiana, dall’Uomo Bianco che dispensava cibo, denaro e favori.
Chi riusciva meglio ad arruffianarsi i funzionari e gli ufficiali era un uomo potente, perché poteva ottenere privilegi per se stesso e per la propria tribù. Era la classica logica del rapporto fra prigioniero e carceriere di tutti i penitenziari e di tutti i campi di concentramento.
E non c’era dubbio che il «cocco» dei bianchi, il Sioux che tutti corteggiavano e blandivano fosse lui, Cavallo Pazzo. Come era evidente che i giovani, sia quelli già nati in cattività, sia quelli che avevano fatto in tempo a vivere la vera vita dei Lakota negli spazi aperti, guardavano a lui, all’invitto Figlio del Tuono, come alloro idolo. I Sioux, lo abbiamo visto, erano, e sono, grandi chiacchieroni, uomini e donne innamorati della parola, della conversazione, del pettegolezzo.
E fra la chiacchiera e la maldicenza la distanza è spesso minuscola, un’occhiata, un’inflessione di voce, un’alzata di spalle. Fu quella, la calunnia, l’arma che i vecchi capi gelosi, i «boss»dei clan, gli ex amici dei tempi della libertà impiegarono per cercare di distruggere il nuovo rivale, mentre fingevano di cantarne le lodi.
Un giorno, fra i visitatori, si presentò a Cavallo Pazzo un ufficiale dell’esercito molto diverso dagli altri che disse di essere un medico, il capitano dottor Vincent Gillicuddy, addetto alla sanità del forte più vicino, Fort Robinson.
Gli disse di aver sentito dire che la moglie, Scialle Nero, soffriva di tubercolosi e gli offrì uno sciroppo nuovo, una medicina arrivata dall’Est che sembrava curare quel male, e calmare la tosse. Cavallo Pazzo accettò e Scialle Nero migliorò visibilmente. Ecco, mormorarono subito gli altri capi attorno al fuoco, proprio Tashunka Uitko, il più grande e glorioso di tutti noi, il figlio prediletto
del Grande Padre che è nei cieli, ha tradito la religione dei suoi antenati, ha preferito la empia medicina del Wasichu alla medicina Wakan,sacra.
È un sacrilegio, è uno scandalo.
Cercarono di mettergli contro il padre, Verme, denunciando il figlio che lo aveva abbandonato per andare con il medicineman bianco, ma il padre rispose calmo ai provocatori mandati da Nuvola Rossa: «Mio figlio mi ha detto che è pronto a tentare qualunque cosa per salvare Scialle Nero dalla morte che si portò via la sua bambina Colei Che Fa Tremare, e io sono d’accordo con lui. La tosse è stata portata dai bianchi e dunque può essere curata soltanto dagli stregoni bianchi».
Il dottor Gillicuddy e Cavallo Pazzo divennero amici, cominciarono a frequentarsi, approfittando delle visite a ScialleNero e il medico chiese al capo guerriero il permesso di fotografarlo. «Dottore» gli rispose l’indiano «perche vuole accorciarmi la vita rubando la mia ombra?»
L’uffIciale medico non insistette. Peccato, perché così perdemmo l’occasione di avere un’ immagine di Tashunka Uitko.
Persino il generale Crook, il vecchio «Tre Stelle» che proprio Cavallo Pazzo aveva castigato nella battaglia del Rosebud, volle incontrare l’antico nemico. Tornò dal colloquio sconvolto da un uomo che doveva essersi immaginato molto diverso, dopo anni di duelli senza quartiere, tra i monti, a colpi di crani spaccati e di cuoi capelluti tagliati via dalle teste dei morti per farne scalpi.
«Credevo di trovare un Attila con la pelle rossa, un cavaliere mongolo delle steppe. Ho trovato un uomo di pace. Se soltanto ci fossimo parlati prima.» Era un po’ tardi per i rimorsi.
Ma non per i calcoli politici. I generali e i funzionari delle agenzie avevano capito che era lui, l’ultimo arrivato, la chiave della sottomissione definitiva di quei Sioux che erano stati disarmati e costretti a vivere nelle riserve. Il pericolo di una rivolta era sempre altissimo e il numero degli indiani raccolti nei campi accanto ai forti era ormai molto alto. Secondo un censimento militare della primavera 1877,dopo l’arrivo di Cavallo Pazzo con la sua banda erano presenti 9000 Oglala sotto Nuvola Rossa, altri 1000 con Cavallo Pazzo, 8000 Brulé nell’accampamento di Coda Macchiata, 1200 Mineconju sotto Tocca Le Nuvole, più 2000 Cheyenne e 2000 Aràpaho. In tutto, 23.200 indiani affamati, amareggiati, rancorosi e interamente dipendenti dagli agenti, dai ben noti furfanti, per il loro sostentamento completo.
Quelle riserve erano tutte potenziali santebarbare esplosive. E Cavallo Pazzo era la miccia. Sotto lo sguardo sempre più preoccupato degli altri capi, i bianchi cominciarono a corteggiare apertamente il Figlio del Tuono, l’eroe della resistenza, per convincerlo a integrarsi definitivamente. Non sapevano, o se lo sapevano non si fidavano pensando che gli indiani fossero bugiardi come gli europei, che Cavallo Pazzo aveva solennemente giurato di non battere mai più il sentiero di guerra, qualunque cosa fosse accaduta.
Cappello Bianco, il tenente che comandava Fort Robinson, propose a Cavallo Pazzo di fare quello che Nuvola Rossa aveva fatto anni prima, di andare a Washington, in visita alla Casa Bianca, per incontrare direttamente il Grande Padre bianco, il presidente Grant, in segno di pace definitiva. Se avesse accettato di fare il lungo viaggio oltre la Grande Acqua, oltre il Mississippi fino alla capitale americana, il Grande Padre bianco, in segno di riconoscenza e amicizia, gli avrebbe concesso una riserva tutta sua, per lui e la sua gente, nel posto prediletto di Cavallo Pazzo: un delizioso fiume non lontano dalle Colline Nere chiamato il fiume dei Castori, per il gran numero di roditori che vi avevano costruito la più grande diga naturale di tutto il Nordamerica.
Nuvola Rossa diede i numeri. All’udire che il suo ex subordinato, il guerriero che aveva combattuto per lui avrebbe avuto una sua riserva personale, dunque sarebbe divenuto finalmente un vero capo, e che sarebbe stato addirittura ricevuto dal presidente alla Casa Bianca, corse da «Tre Stelle» Crook, dal tenente Cappello Bianco, dagli agenti per scongiurarli di non commettere quell’ errore, di non fidarsi di quell’Oglala selvatico, di ricordare la fine di Custer. Chi conosce meglio Tashunka Uitko, io che sono stato il suo capo per anni o voi bianchi? Cavallo Pazzo finge di essere in pace, ma aspetta solo il momento buono per rialzarsi e organizzare la rivolta dei 20.000 Lakota contro di voi. Non vi rendete conto che siete circondati dagli indiani?
In realtà, Cavallo Pazzo non aveva nessuna intenzione di accettare la proposta e di andare alla Casa Bianca dal Grande Padre bianco. Al dottor Gillicuddy aveva confidato:«lo ho già due padri, il padre che mi ha fatto nascere qui sulla terra e il Padre che sta nel cielo. Non ho bisogno di un altro padre a metà strada fra la terra e il cielo».
Ma anche se la voce di una rivolta guidata da lui era ridicola, non avendo più a disposizione una sola arma, né un solo cavallo, l’esercito non poteva non essere sensibile ai rischi, e ai mormorii che arrivavano da quelle moltitudini di Sioux accampati attorno ai loro forti. Cappello Bianco, che era direttamente responsabile della zona dove erano accampati gli Oglala, tentò di convincerlo ancora a fare il viaggio, per il bene di tutti. «Prima la riserva sul fiume dei Castori e poi il viaggio» insisteva Cavallo Pazzo che aveva imparato a non fidarsi mai della parola dei bianchi. «Prima il viaggio, poi la riserva» ripeteva Cappello Bianco. Ma lui scuoteva la testa.
Il generale Crook, sotto pressione dal ministero della Guerra a Washington per chiudere finalmente la «pratica Cavallo Pazzo», tentò di ingraziarsi il Figlio del Tuono con una donna. Calcolando che le notti di quel guerriero ancora giovane, poco più che trentenne, sposato con una donna malata come Scialle Nero, dovevano essere molto solitarie sotto il tipì, gli mandò una nuova moglie, una giovane donna di sangue misto bianco e sioux, Nellie Larrabee, con l’ovvio incarico di fare anche da spia.
Questa volta Tashunka la accettò, e altrettanto fece Scialle Nero che fu ben lieta di vedere arrivare una giovane che la sollevasse dalle fatiche coniugali e domestiche, ma Crook aveva sbagliato i conti. Il sangue lakota di Nellie fu più forte del sangue bianco. Nelle notti sotto il tipì, anziché limitarsi a fare la concubina, la ragazza si innamorò davvero di Tashunka e ne divenne la consigliera e la spia alla rovescia. Gli riferiva quel che sentiva dire al forte, tra i soldati bianchi e i capi gelosi. Lo scongiurava di non partire, di non cadere nel tranello.
«Non intendono darti nessuna riserva su nessun fiume dei Castori» gli mormorava Nellie alla sera, «vogliono soltanto portarti via da noi, dal tuo popolo, per metterti in catene come i loro cani, ma non hanno il coraggio di farlo qui.» Gli disse di aver sentito parlare di un’isola misteriosa e arida, una lingua di sabbia nel grande mare a ovest, chiamata isola della «Tortuga Seca», della tartaruga secca, dove i bianchi deportavano a morire tutti i capi e gli indiani dei quali non si fidavano.
Ma alla fine Cavallo Pazzo cedette. Disse a Cappello Bianco che sarebbe andato a Washington, dal presidente e chiese se il tenente potesse insegnargli un poco di buone maniere, come ci si veste, come ci si comporta nelle grandi città dei bianchi. Al dottor Gillicuddy domandò di insegnargli come si reggono il coltello e la forchetta, per non far fare brutta figura ai Lakota, nella grande tenda bianca del presidente a Washington.
Le autorità, quando seppero la notizia, esplosero di felicità.
Promisero a Cavallo Pazzo mari e monti, gli giurarono che al ritorno gli avrebbero dato la riserva sul fiume dei Castori, anzi, molto di più. Avrebbero restituito fucili e cavalli ai suoi Oglala per un’ultima, grande caccia al bisonte nel territorio del fiume della Polvere, oltre i monti Bighorn.
«Ma siete impazziti?» si precipitò a dire Nuvola Rossa, questa volta spalleggiato anche da Coda Macchiata dei Brulé. «Ma come potete ridare armi e cavalli a Tashunka?
Ma non capite che li userà immediatamente contro di voi, galoppando alla testa di migliaia di guerrieri in rivolta?» Poi venne fuori la verità: «Se date armi e cavalli a lui, dovete darli anche a tutti noi».
La crisi era molto seria e i comandanti dei forti si domandavano come risolverla, come conciliare il loro desiderio di veder partire Cavallo Pazzo per Washington con la necessità di non contrariare troppo Nuvola Rossa e Coda Macchiata, quando arrivò dal Nord una notizia che sembrò risolvere tutti i problemi.
Dal lontano Ovest, dal territorio che oggi si chiama Oregon, una tribù di fierissimi guerrieri fino ad allora in pace con i bianchi, i Nez Percé, i Nasi Forati, aveva improvvisamente imboccato il sentiero di guerra. Sotto la guida di un capo chiamato Joseph, Giuseppe, aveva attraversato le Montagne Rocciose e si stava dirigendo verso i monti Bighorn, verso il vecchio territorio di caccia che era stato prima dei Corvi, poi dei Lakota. Sheridan, Crook e il colonnello Miles, Cappotto D’Orso, ebbero un’idea per chiudere l’affare Cavallo Pazzo in maniera geniale.
Perché non offrire a quel guerriero e ai suoi compagni la possibilità di tornare nel loro carissimo territorio di caccia, nella zona delle loro grandi vittorie, come alleati degli americani, come reparti ausiliari da mandare in guerra contro i Nasi Forati di capo Giuseppe, lasciando a loro il compito di fermarli ed evitando ai soldati l’ennesima, «sporca guerra»?
«Cavallo Pazzo non accetterà mai» intervenne Cappello Bianco, il comandante di Fort Robinson, che lo frequentava più degli altri. «Cavallo Pazzo accetterà se noi metteremo una grande carota in cima al bastone» lo contraddisse il generale Crook, «se noi gli prometteremo di fare di quel territorio attorno al Powder River, sotto i Bighorn, la sua riserva. Così non gli sembrerà di combattere per noi, ma di combattere per la sua gente, per riconquistare le terre che è stato costretto ad abbandonare.»
Fine parte 1
Fonte www.sentierorosso.it